L’invidia viene considerata come un sentimento negativo, riprovevole: fa parte dell’educazione che riceviamo. Non potrebbe essere diversamente, la parola deriva dai termini latini in, contro qualcosa o qualcuno, e videre, vedere. Indica dunque l’azione di guardare male ciò che sono o hanno gli altri, con risentimento. Ma da lì le emozioni che scaturiscono possono essere varie. Nella peggiore delle ipotesi si vuole la caduta di chi riteniamo avere uno status più importante e si scivola nello schadenfreude, che ci fa godere delle disgrazie altrui. Ma siamo sicuri che volere semplicemente migliorare la propria condizione ottenendo quello che non abbiamo sia per forza una cosa da evitare? Nelle corrette dosi non può essere un motore di sviluppo, di giustizia ed equità sociale?
Erodoto fa risalire l’invidia agli dei arcaici, pronti a punire anche con la morte gli umani che avessero ottenuto troppa gloria. In questo caso l’invidia non sorge dalla volontà di raggiungere una cosa preclusa, perché già in possesso delle divinità. Ma restando in tema, il mito di Prometeo, come va interpretato? Gli uomini vogliono il fuoco perché lo invidiano agli dei, ma senza fuoco non c’è progresso. In questo caso l’invidia sprona a fare passi in avanti, non può essere considerata negativamente, almeno dagli umani.
Anche i latini, da Cicerone a Tito Livio, sottolineano il carattere distruttivo dell’invidia, accentuato dal cristianesimo, con il mito di Caino e Abele. Tanto da farla rientrare fra i sette peccati capitali. Per S. Agostino è addirittura il “peccato diabolico per eccellenza”. Dante, nella Divina Commedia, parte dall’etimologia latina per escogitare la punizione destinata agli invidiosi: gli occhi cuciti. Ma non si trovano all’inferno, bensì in purgatorio. Non è andata troppo male a chi si è macchiato di una colpa capitale.
Friedrich Nietzsche riconduce l’invidia alla morale cristiana: nell’incapacità di raggiungere le vette del superuomo, questa esalta i valori dell’umiltà, ma dall’egualitarismo cristiano si generano invidia e odio. In una situazione di parità, sostiene Nietzsche, si tende a far tornare allo status quo chi prova ad emergere. Praticamente come i granchi nel secchio: questi crostacei, messi in un secchio, potrebbero facilmente scappare. Ma quando uno inizia ad arrampicarsi, gli altri lo riportano giù per qualche misterioso meccanismo.
Non sappiamo cosa spinga esattamente i granchi, se fosse invidia non sarebbe certo una tipologia che aiuta la collettività. Basterebbe astenersi dal danneggiare gli altri e sarebbero tutti liberi. È invece dimostrata e classificata come invidia – ma costruttiva – quella che provano alcune scimmie, dei cebi nello specifico dell’esperimento condotto dal primatologo olandese Frans De Waal. I cebi, divisi a coppie in gabbie trasparenti, in modo che potessero vedersi, sono stati addestrati a dare delle pietre al ricercatore in cambio di pezzetti di cetriolo. Se la ricompensa per una delle due diveniva un chicco d’uva, più gradito del cetriolo, l’altra cominciava a spazientirsi e si rifiutava di svolgere il compito. Non solo, il senso di ingiustizia veniva avvertito anche dalle scimmie privilegiate, che compresa l’iniquità si rifiutavano di mangiare l’uva.
Il sociologo Francesco Alberoni nel 1994 ha pubblicato il libro Gli Invidiosi, analisi del peccato capitale nella società contemporanea. La delusione nelle comparazioni, secondo Alberoni, può portare l’individuo alla rinuncia, alla svalutazione di un determinato modello o a un senso di ingiustizia. L’invidia può anche essere un meccanismo di difesa per i soggetti insicuri. Rapportandola alle dinamiche storico-sociali, Alberoni giunge alla conclusione che l’invidia individuale abbia una funzione conservatrice che blocca la crescita altrui. Ma nel momento in cui si crea lo “stato nascente” di un movimento, si può trasformare in forza innovatrice che nulla ha a che fare col risentimento.
Insomma, è possibile che senza un pizzico di invidia le rivoluzioni sociali e tutti i cambiamenti in senso di maggiore equità non ci sarebbero stati. E che troppa umiltà sarebbe rimasta schiacciata dalla superbia di pochi.