Nei giorni scorsi, due eventi diametralmente opposti si sono tenuti nello stesso luogo. O meglio, nella stessa tipologia di luogo. All’aeroporto di Fiumicino sbarcavano alcuni richiedenti asilo siriani giunti grazie al corridoio umanitario recentemente aperto con il Libano. Negli aeroporti statunitensi venivano bloccate e respinte le vittime del cosiddetto “muslim ban” voluto da Donald Trump, ovvero la sospensione dei visti per i provenienti da sette Paesi “rischiosi”: Siria, Iraq, Iran, Libia, Somalia, Sudan e Yemen. Ancora, gli stessi aeroporti statunitensi sono stati teatro di manifestazioni organizzate dagli oppositori alle chiusure volute dal presidente. Insomma, tutte situazioni dalla forte connotazione politica.
Aeroporti non luoghi
Nel 1992 Marc Augé, antropologo francese, includeva gli aeroporti fra i “non luoghi” nel saggio Non luoghi: introduzione a un’antropologia della surmodernità. L’assioma di Augé raggruppa tutti quegli spazi che per la propria destinazione d’uso sono impersonali, di transito, incapaci di far sviluppare rapporti duratori. Aeroporti appunto, ma anche autostrade, centri commerciali, campi sportivi, alberghi, perfino i campi profughi. Trovarsi in un aeroporto o in un altro non è che faccia grande differenza. È un’alienazione dalla realtà, una serie di limbo diversi e uguali fra loro.
È diverso per i porti, che storicamente sono luoghi di incontro, di scambio culturale e commerciale (più o meno legale) dove ci si prendeva anche il proprio tempo: per fare un esempio, Cristoforo Colombo si fermò per un mese a Gran Canaria per aspettare i venti giusti. L’aeroporto è simbolo della frenesia contemporanea, anche perché il relativo mezzo viaggia a una velocità differente da tutti gli altri. Così, pure se si incrocia gente da tutto il mondo, è raro intrattenercisi. Troppo poco tempo a disposizione e quando ce n’è – per uno scalo o per un ritardo – è un disappunto, si cerca di ammazzarlo a tutti i costi, con buona dose di noia e impazienza.
Terminal e la vera storia
The Terminal, film del 2004 diretto da Steven Spielberg, mostrava il paradosso di vivere in un “non luogo”. Privato della cittadinanza da un colpo di Stato nel suo Paese, il protagonista interpretato da Tom Hanks si ritrova apolide mentre è in viaggio e rimane bloccato a tempo indeterminato nell’aeroporto di New York.
Qui dorme, mangia, si lava e si rade, stringe amicizie, addirittura si innamora. Sembra preludere, insomma, al superamento del pensiero dell’aeroporto come “non luogo”. Presupposti simili a quelli della pellicola francese Tombés du ciel, antecedente di dieci anni. Entrambi i film sono stati ispirati dalle vicende del rifugiato iraniano Mehran Karimi Nasseri, per diciotto lunghi anni ospite del Charles De Gaulle di Parigi perché senza più documenti che ne attestassero lo status. I suoi squilibri mentali non la resero, però, una storia a lieto fine.
Analoga è la storia di un cittadino cingalese, che decise di volare in Spagna, ufficialmente in vacanza, più probabilmente con la speranza di ottenere asilo. I suoi documenti non vennero accettati dalla dogana e l’uomo fu rispedito all’ultimo scalo effettuato, Casablanca, dove è rimasto nell’area transiti oltre i 20 giorni concessi agli stranieri. Nemmeno il Marocco accettò la richiesta d’asilo, nonostante i visibili segni delle torture e, per legge, l’unica possibilità rimasta fu il rimpatrio.
L’esperimento di de Botton
Nel 2012 lo scrittore svizzero Alain de Botton ha deciso di trascorrere una settimana all’aeroporto di Heathrow, Londra, per sfatare il mito del “non luogo”. L’autore ha riscontrato, all’opposto di Augé, una grande vita, una caratterizzazione “umana” e perfino “sentimentale”, con la prevalenza di “ansia, attesa e desiderio”, avvertiti in maniera più forte che altrove.
“I voli non sono più un’emozione, ecco perché ci attendiamo qualcosa di più dagli scali”. E contrariamente all’idea di standardizzazione, de Botton, ormai londinese di adozione, sostiene di sentire “l’odore della Svizzera quando torna all’aeroporto di Zurigo, un misto di erba fresca e disinfettante”.