E allora, dopo aver parlato dei videogiochi nella loro nuova veste utile, femminile e social,eccole qui le “Lady Macbit, le signore del videogame”, tutte italiane (e quasi tutte romane)… donne che hanno contribuito a dare vita a realtà anche piuttosto sconosciute, per chi non è un “fissato” del settore. L’incontro si è svolto durante l’edizione 2017 del Festival Arcipelago di cortometraggi e nuove immagini al teatro Palladium a Roma.
Vigamus
Micaela Romanini è vicedirettrice di Vigamus, il museo del videogioco di Roma, in zona Ottaviano: “succede che in Inghilterra, durante le riunioni, le donne e i loro progetti non vengano proprio considerati. Ma devo dire che io in Italia non ho avuto questi problemi”. In effetti la differenza di trattamento a lavoro è tra le più basse in Europa (6% secondo Report). Che in fondo è una mezza buona notizia.
Aumenta la presenza delle donne
Alessia Padula è general manager dell’Accademia dei videogiochi di Roma e della sua esperienza può dire che “le poche donne che si iscrivono sono molto determinate e stanno aumentando”. Perché non bisogna dimenticarsi che “spesso le donne non vengono assunte perché più timide e modeste nei curriculum, tendendo più spesso a sottovalutarsi”.
Anna Riitta Ciccone, tra l’Italia e la Finlandia, è la prima regista in Europa ad aver realizzato un film in 3D. I am, appena uscito e presentato a Venezia, ha avuto un grande successo di critica, ma a lei “danno fastidio i distinguo come la prima donna che… fin da piccola per me è stato normale avere a che fare col mondo delle immagini”. Ma comunque 25% è la percentuale delle registe in Italia.
Lara Oliveti, fondatrice dello studio Melazeta di Modena, realizza videogiochi diversi, per donne e uomini, bambini e adulti, dalle Wynx all’avventura. Dice scherzando che li fa testare gratuitamente ai suoi figli, ma ora che si sono fatti grandi pretendono di essere pagati! “La realtà aumentata sembra ieri, ma sono già quasi dieci anni che ci lavoriamo. Uno dei nostri ultimi progetti ludico/educational è in VR (realtà virtuale, più immersiva dell’aumentata) ed è giocato molto dalle ragazze: un ologramma di Leonardo ti chiede di provare le sue invenzioni, che, si sa, non proprio tutte funzionavano bene…!”.
Identificazione
Violetta Leoni, producer dello studio 101% di Testaccio a Roma è fissata coi videogiochi “dal game boy” (che già il nome rivelava per chi fossero nati i videogiochi). Ha prodotto a sua volta Lucrezia Bisignani e il suo Sema Land che cerca di risolvere in modo semplice un problema enorme. Un gioco per insegnare a leggere, scrivere e contare in luoghi dove la scuola non è diffusa, utilizzando storie, musiche e giochi dei luoghi di riferimento, africani o arabi (a seconda della versione).
“La protagonista femminile più impara più cresce di poteri, ed è femmina sia per aiutare il processo di identificazione sia perché la comunicazione dell’esistenza di questa app si gioca tutta con le mamme”. Lo studio produce cose diversissime come Witness Auschwitz “un’esperienza educational in VR che ha creato scalpore, ma non è crudo, vuole solo fa rivivere cosa significava vivere in un campo di concentramento”.
Decade la distinzione sui videogiochi per maschi e femmine
Federica Imbriani dello studio Leaf, in zona Lodi a Roma, autore del multiplayer molto in voga Food invaders, considera i videogiochi “opere che stanno tra l’artistico e il commerciale” e ritiene che sia normale l’esistenza di “giochi distinti per maschi e femmine, come esistono giochi distinti per adulti e bambini. Ma non è da femmine quello che sembra da femmine… quello che voglio dire è che il marketing si interfaccia molto col designer che deve tenere da conto i ‘driver emozionali‘ che portano a giocare, più che i personaggi o i colori… tipo il rosa.
Quindi da femmina è un gioco che spinge alla raccolta, per esempio. Da maschio è un gioco che punta di più alla competizione. Oltretutto non è vero che i giochi di violenza non piacciono alle ragazze (anzi talvolta li amano ancora più cruenti!): ora stiamo preparando uno sparatutto in terza persona e ho visto una bimba di 5 anni giocare contro il padre… cattivissima!” Si fa per dire. “Spesso l’uomo è visto come il soggetto neutro, ma in realtà giocare con un personaggio che abbia il nostro sesso spinge a giocare”. Quindi sarebbe semplicemente il caso di dare sempre entrambe le possibilità per una questore banale di vendite!
Eleonora Lucheroni, responsabile Comunicazione di Storm in a teacup al Torrino (XXVII zona di Roma), definisce lo studio uno “storyteller di esperienze”, avendo verificato che esistono “giochi da maschio che le donne amano e viceversa… l’unica differenza è che l’uomo non lo ammette! Semplicemente ci sono storie che sono meglio narrate da donne e altre da uomini, ma il target più ampio sembra ancora quello maschile. Essere l’unica donna giocatrice oggi fa vanto perché rappresenta ancora un’unicità”. L’ultimo lavoro dello studio è Close to the sun in una realtà dove Tesla ha vinto e la protagonista è una giornalista.
Settore videogiochi in crescita
Insomma la capitale Roma, nonostante sembri sempre immobile, dimostra un grande fermento in questo settore. E guardando a queste donne, da dove venivano (formazioni disparate, dalla filosofia all’antropologia, dalla grafica alla fotografia) e dove sono arrivate, tutte parlano di un “percorso graduale” che alla fine le ha portate al videogioco. Come dice Violetta: “ero una ragazzina molto chiusa e i videogiochi, contrariamente a quanto si può pensare, mi hanno aiutata a uscire”.
Al di là di qualsiasi intenzione, infatti, “ogni videogioco viene giocato in modo diverso da ogni persona. Per esempio quando giocavo a The town of light”, il videogioco che ti fa sentire matto, diceva Repubblica, altra creazione italianissima della Lka che fa rivivere digitalmente il vecchio manicomio di Volterra, “io mi sono immedesimata moltissimo in Renè”. La protagonista della storia, su cui devi ricercare indizi. Insomma “uccidere gli zombie dopo l’ufficio è rilassante, e anche per me la comunicazione uomo/donna deve essere divisa”, ma non per questioni di disparità, solo “per conoscere meglio altri punti di vista”. Ma sempre tenendo presente che “molti sono stereotipi più che vere e proprie esperienze”.