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La solidarietà femminile nelle opere di Artemisia

Oltre alla violenza c’è un altro aspetto ricorrente nei quadri di Artemisia Gentileschi: la solidarietà femminile. Un tema che può sembrare banale da parte di una donna, ma anche questo ha un senso molto più profondo se si considera “la sua vita dentro la sua arte”. Ci fu una figura femminile in particolare che non la aiutò affatto, anzi, la infilò dentro la tragedia che caratterizzò la sua gioventù. Ma altre la aiutarono con compassione. E Artemisia non l’ha mai dimenticato, anzi, forse la sua più grande lezione “femminista” è proprio qui dentro…

[Continua da La catarsi della violenza nell’arte: la storia di Artemisia Gentileschi]

Il confronto tra Giuditta di Caravaggio (a sinistra) e una di quelle di Artemisia (a destra). Sebbene si possa discutere poco su quale delle due sia “la più bella”, esteticamente parlando e solo del viso, ci sarebbe molto di più da discutere su quello che stanno facendo e quanto Artemisia sia stata molto più realistica del maestro. Il problema è sempre lo stesso: agli uomini interessa solo la bellezza e la grazia delle donne, che deve essere mantenuta tale anche nelle situazioni più estreme. Ma non è certo così per le donne, soprattutto per quelle che hanno vissuto questo dono a loro discapito…

…Per non parlare della sua Giuditta e Oloferne. Dipinta proprio negli anni 1611-12, precisamente tra lo stupro e il processo. E anch’essa riproposta altre tre volte. Una Giuditta diversa da tutte quelle precedenti, molto più viva, credibile, presente nell’azione orribile che compie. Una Giuditta che nemmeno Caravaggio riuscì a dipingere così vera: da una parte c’è una smorfia quasi schifata, impaurita, sorpresa, distaccata, poco convinta. Prendete la faccia di Giuditta di Artemisia: è completamente dentro quell’atto, lo vuole, lo desidera, lo compie convintamente, con il braccio in tensione, il corpo dominante, un viso segnato dallo sforzo, ma soprattutto dalla determinazione. Il soggetto successivo fu Danae (1612). Ancora una volta un’iconografia, stavolta mitologica, che ha nella violenza un tema importante, ma spesso sottovalutato: prima rinchiusa in una torre dal padre, poi messa incinta da un uomo o da Zeus “in persona” sotto forma di pioggia dorata. Nella versione di Artemisia, essa viene raccolta da una bambina dentro il suo grembiule, e anche se può sembrare un’azione ovvia e naturale – “piove oro, dunque lo raccolgo” – Artemisia, con questa piccola figura, ci ricorda che di certo si parla di un mito lontano che però rimane una sorta di “delicata raffigurazione di stupro”. Raccogliere quella pioggia rappresenta un’altra azione di difesa del femminile verso il femminile.

Queste opere di Artemisia, come altre successive, vedono spesso una protagonista accompagnata da un’altra figura femminile, che di solito, non solo è presente, ma attivamente coinvolta, coadiuvante rispetto a ciò che l’eroina compie in prima persona. Così Giuditta ha la sua serva che la aiuta concretamente nell’uccisione del generale assiro, tenendolo fermo. In altre versioni “senza spargimenti di sangue” è sempre lei che si adopera a nascondere la testa o il coltello. Lo stesso in Ester e Assuero (1628-35) dove la svenente eroina viene sorretta da due ancelle mentre sta svolgendo il suo delicato compito. Cleopatra (1633-35) appena suicida, è compianta e guardata con amore da due donne. Nelle tante versioni di David e Betsabea, una storia simile a quella dei vecchioni, la donna viene accudita in primo piano dalle sue ancelle, mentre David sullo sfondo quasi non si vede. Infine la sua versione di Sansone e Dalila (1630-38), completamente diversa da qualsiasi altra rappresentazione (Mantegna, Rubens…) che ha sempre mostrato un Sansone, comunque possente, adagiato su una Betsabea quasi dispiaciuta, per certi versi erotica, mentre con Artemisia, ancora una volta, tutto si ribalta con due protagoniste femminili (l’eroina e l’aiutante dell’eroina): la prima con un’espressione quasi divertita, la seconda piena di movenze solidali, mentre Sansone rimane accennato in un angolo e nemmeno ritratto per intero.

Perfino ne La natività di San Giovanni Battista (1633-35) il bambino protagonista è totalmente offuscato dalla dinamica relazionale delle quattro donne che lo accudiscono…

Ed ecco da dove nasce quest’arte. Tuzia, fantesca (domestica) dei Gentileschi dall’aprile 1610 che, “in assenza di Orazio, era solita accudire la ragazza, non solo fu complice (insieme a Cosimo Quorli, furiere della camera apostolica) dello stupro che avvenne in casa, ma portò una testimonianza sorprendentemente svantaggiosa per Artemisia descrivendo i liberi costumi della pittrice e contrapponendole il comportamento dignitoso del Tassi, nonché la fedele lealtà al padre di lei. Artemisia accusò il colpo: Tuzia era per lei – ragazza orfana di madre, unica femmina tra quattro figli – il riferimento principale. Ciò può spiegare perché in molti quadri, di datazione immediatamente successiva al processo, la pittrice includa il tema della solidarietà femminile”.

Interessante sottolineare anche l’interpretazione, romanzata, ma su ricostruzione storica di Susan Vreeland autrice de La passione di Artemisia. Durante il processo contro il suo stupratore, le fa dire, dalle sue stesse parole, che anche il Quorli “ha tentato, Vostra Eccellenza. Lo aveva portato in casa Agostino Tassi. L’ho respinto. Mi avevano insidiato entrambi. Lanciandomi sguardi lascivi. Bisbigliando allusioni. Per molti mesi. Un anno. Avevo appena diciassette anni quando hanno cominciato. Cosimo Quorli minacciò di andare in giro a vantarsi di avermi posseduta, se non mi fossi sottomessa a lui“.

E su Tuzia la spiegazione in prima persona del perché l’avesse accusata ingiustamente: dopo la tortura della Sibilla “non potevo tenere in mano né un pennello né un cucchiaio. Papà disse a Tuzia di darmi da mangiare. Fin da quando era morta la mamma, Tuzia avrebbe voluto l’amore di papà, non solo il suo letto. Era gelosa dell’amore che lui nutriva per me. Ecco perché aveva fatto entrare Agostino. Meglio morire di fame che farmi nutrire da lei e così non mangiavo. Un pomeriggio papà tornò a casa urlando che Tuzia mi aveva tradito in tribunale. Aveva testimoniato di aver visto un fiume di uomini entrare nelle mie stanze, e così la cacciò di casa e chiese a una vicina, Porzia Stiattesi, di darmi da mangiare”.

Artemisia Gentileschi – Cleopatra (1633-35)

Dopo lo stupro e la tortura, durante il processo Artemisia subì una terza violenza quando si procedette all'”esaminazione delle pudenda della signorina Gentileschi e che il notaio osservi” perché per accusare un uomo di stupro era necessario anzitutto verificare la non verginità della donna, ma all’epoca “ammettere di non essere vergine, comunque si fossero svolte le circostanze, mi avrebbe marchiata per sempre come priva di autocontrollo e dunque da non sposare“. Questo per fortuna non successe: Porzia confermò sempre le deposizioni di Artemisia, diventando per lei una vera sorella, e già parente di Pierantonio, colui che anni più tardi sarebbe diventato marito della pittrice che, da pittore minore, la portò sempre sul palmo della mano. Il matrimonio inoltre le consentì di allontanarsi da una Roma che oramai l’aveva stigmatizzata con i suoi stereotipi (tranne una suora che pure è tra i suoi ritratti), stabilendosi a Firenze dove Artemisia diventò la prima donna a entrare nell’Accademia delle Belle Arti.

Significativi anche i suoi autoritratti… trasfigurati. Di lei come qualcun’altro: ce ne sono almeno cinque. Autoritratto come Santa Caterina di Alessandria, la storia di una donna che difese la libertà di culto di fronte all’imperatore, il quale fu (ovviamente) più colpito dalla sua bellezza che dalla sua eloquenza, e senza nemmeno pensare alla possibilità di concedere le sue richieste, pretese piuttosto di sposarla… e al suo rifiuto… tortura della ruota e decapitazione. Oppure Autoritratto come martire (1615)… e anche qui c’è poco da aggiungere rispetto a questa scelta.

Artemisia Gentileschi – Autoritratto come suonatrice di liuto (1616-18) classica rappresentazione del ‘600, ma non come donna

Finché evidentemente qualcosa successe nella sua auto-percezione, quando lasciò quei temi per ritrarsi sempre più forte e determinata, come d’altra parte è sempre stata. Visto che, di fronte a processi, torture e una macchia comunque indelebile sul proprio onore (basta leggere che sonetti le hanno riservato perfino dopo la morte…), tutte le donne dell’epoca si ritrovavano in realtà costrette ad accettare un più comodo “matrimonio riparatore”, con lo stesso esecutore del crimine, come si usava in tempi in cui lo stupro non era visto tanto come una lesione alla persona, quanto a “una generica moralità”:

«Co’l dipinger la faccia a questo e a quello / Nel mondo m’acquistai merto infinito / Nel l’intagliar le corna a mio marito / Lasciai il pennello, e presi lo scalpello / Gentil’esca de cori a chi vedermi / Poteva sempre fui nel cieco Mondo; / Hor, che tra questi marmi mi nascondo, / Sono fatta Gentil’esca de vermi». Giovan Francesco Loredano & Pietro Michele

Così la vediamo autoritratta come suonatrice di liuto (1615-17) con un’espressione del volto e della posa davvero forti, quasi “maschili”: mento alto, sguardo dritto, un’espressione per alcuni “sfidante” nei confronti dello spettatore o dei colleghi artisti (praticamente tutti maschi). Ancora, come allegoria della pittura (1639), intenta nella sua arte, e forse già volto dell’Allegoria dell’Inclinazione (1615).

Ritratto di Artemisia Gentileschi di Simon Vouet (1623-26)

Per non parlare dell’unico ritratto di Artemisia non realizzato da lei, ma da Simon Vouet (1623-26) che forse è la versione più bella e più vera, che non si è mai voluta concedere da sola. Con un accenno di sorriso, finalmente, e uno sguardo calmo e confidente. Anche se in molte rappresentazioni del padre Orazio sembra proprio di vedere il volto di Artemisia, per esempio in Ritratto di una giovane donna come sibilla (1620) o in un dettaglio della Circoncisione (1607), e precisamente nel volto di Santa Cecilia.

Ma una cosa è certa: la sua pittura ci racconta che Artemisia è una persona risolta. Guardando alle cinque tele che ritraggono Susanna, la sua rappresentazione più emblematica, è evidente come la donna sia sempre meno spaventata dai vecchioni. Nella prima versione si legge la paura (ma anche il profondo fastidio delle sopracciglia corrugate), la donna guarda a terra e si schernisce con le mani, sembra pronta a fuggire; nella seconda versione Susanna guarda avanti, più che paura percepiamo la tensione della scena; nella terza e quarta versione che sono molto simili, la donna trasmette il solito senso di pericolo, ma per la prima volta guarda, con gli occhi di sbieco, ai suoi due aggressori; nell’ultima versione, due anni prima della sua morte, addirittura Susanna li guarda dritti in faccia, il suo braccio alzato non sembra più avere una funzione protettiva, ma quasi di “forza”, di impedimento attivo alla lussuria degli uomini, e per la prima volta, e forse anche in ragione di questa nuova prospettiva, non mostra più un corpo nudo da coprire.

Un confronto tra la prima (a sinistra) e l’ultima versione di Susanna e i vecchioni di Artemisia Gentileschi. Tra il 1610 e il 1652

Susanna è cresciuta nelle tele di Artemisia, da iconografia trita e ritrita lei ci ha compiuto un intero viaggio dell’anima attraverso, liberando la donna, tutte le donne, compresa sé stessa, da un trauma, non tanto specifico, quanto generale: quello di essere sempre fraintese, ostacolate, denigrate, oggettificate. Perché la forza si ritrova solo insieme, dando vera vita alla famosa “solidarietà femminile” che però talvolta sembra più uno stereotipo che una vera realtà. Cioè: solo accettando che siamo come siamo e che questa nostra natura la difenderemo strenuamente. Non è colpa nostra se gli altri hanno pretese su di noi. Nessuno dovrebbe mai piegarsi a questo ricatto esistenziale. A ogni costo. E Artemisia lo sapeva bene.

Leggi anche: La nascita dell’arte? Per mano delle donne

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